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Reato di ostacolo alla vigilanza cooperativa: ne risponde anche il prestanome

28/08/2023

Risponde del reato di ostacolo alla vigilanza cooperativa anche il prestanome della società che non fornisce all’ispettore documenti o indicazioni utili per lo svolgimento della revisione. Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21878 del 16.03.2023.

IL FATTO

Con sentenza deliberata in data 01/03/2022, la Corte di appello di Trieste ha confermato la sentenza del 26/09/2019 con la quale il Tribunale di Gorizia aveva dichiarato l’amministratore unico di una cooperativa responsabile del reato di ostacolo all’attività di vigilanza ex art. 2638, secondo comma, cod. civ.
Ciò in quanto aveva consapevolmente ostacolato l’attività ispettiva omettendo, nonostante le reiterate richiesta del revisore incaricato, di porre a disposizione dello stesso la documentazione contabile e societaria necessaria e lo aveva condannato alla pena di giustizia.

L’amministratore aveva proposto ricorso in Cassazione affermando che la norma incriminatrice richiede, per la consumazione del reato, un quid pluris rispetto al semplice ostacolo alle funzioni.

L’ostacolo alla vigilanza deve essere effettuato dalle figure individuate dalla norma “consapevolmente”, ossia che l’agente abbia coscienza che il comportamento tenuto ostacola le funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza e che voglia con il suo comportamento ostacolare dette funzioni.

LA NORMATIVA

Per quanto riguarda la normativa di riferimento, si evidenzia come l’art. 12 del D.lgs. n. 220/2002 stabilisce che: “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 2638, secondo comma, del codice civile, gli enti cooperativi che si sottraggono all’attivita’ di vigilanza o non rispettano finalita’ mutualistiche sono cancellati, sentita la Commissione centrale per le cooperative, dall’albo nazionale degli enti cooperativi.”

In particolare, poi, l’art. 2638 c.c. prevede che “Sono puniti con la reclusione da 1 a 4 anni gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società, o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali, in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, consapevolmente ne ostacolano le funzioni.”

LA SENTENZA DELLA CORTE

Per la configurabilità del reato di cui al secondo comma dell’art. 2638, cod. pen., occorre «la verificazione di un effettivo e rilevante ostacolo alla funzione di vigilanza, quale conseguenza di una condotta che può assumere qualsiasi forma, tra cui anche la mera omessa comunicazione di informazioni dovute.

L’evento di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza «si realizza con l’impedimento in toto di detto esercizio ovvero […] con il frapporre al suo dispiegarsi difficoltà di considerevole spessore o con il determinarne un significativo rallentamento: difficoltà o rallentamento che devono dar corpo ad un effettivo e rilevante ostacolo alla funzione di vigilanza.

Il reato di cui al 2° comma dell’art. 2638 c.c. è un reato di evento a forma libera che può avere anche natura omissiva e richiede, sul piano dell’elemento psicologico, il dolo generico, che, naturalmente, deve investire anche l’evento del reato.

La Corte d’Appello ha richiamato l’esame dibattimentale dell’ispettrice della cooperativa, la quale, in sintesi, aveva riferito di aver avuto un colloquio telefonico con l’amministratore, che, alle sue richieste, aveva risposto di non sapere nulla della cooperativa, in quanto questa era gestita da altri soci.

L’ispettrice, che aveva inutilmente cercato di prendere contatto con gli altri soci, non era riuscita a ottenere dall’imputato né un incontro, né documentazione o informazioni utili.

Osserva al riguardo il giudice di appello che la condotta in toto non collaborativa mantenuta dall’amministratore ha costituito ostacolo all’attività ispettiva della società amministrata dall’imputato.

Tale attività costituiva espressamente il motivo della richiesta di documentazione, come era chiaro a chiunque fosse in possesso di normali facoltà cognitive (e maggior ragione del legale rappresentante di una società).

Inoltre, la finalizzazione dell’istanza all’attività di vigilanza risultava chiaramente dal testo della diffida al cui ricevimento l’imputato fece seguire la telefonata all’ispettrice.

Pertanto, la Corte ha rigettato il ricorso.

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